Nella malattia di Alzheimer deregolazione
di geni e isoforme
GIOVANNI
ROSSI
NOTE E NOTIZIE - Anno XVII – 28 novembre
2020.
Testi
pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di
Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie
o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione
“note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati
fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui
argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: RECENSIONE]
La malattia di Alzheimer, la
più comune[1] e grave demenza neurodegenerativa, costituisce una categoria nosografica definita
in base ad elementi patogenetici e clinici comuni, ma in realtà costituita da
forme diverse per eziologia, che può essere esclusivamente genetica (forme
familiari) o multifattoriale e prevalentemente indeterminata (forme sporadiche);
per esordio, che può essere precoce, presenile[2], nell’età media della vita oppure in età senile o più spesso nella tarda
senilità; e per fisiopatologia: può presentare entrambi i contrassegni istopatologici
descritti da Alzheimer e Perusini, ossia placche
amiloidi neuritiche e grovigli neurofibrillari intraneuronici,
oppure uno solo dei due, presentandosi come tipo con placche soltanto (plaque only type) o come taupatia senza placche evidenti
associata a demenza[3].
La maggior parte dei ricercatori che
ritiene irrilevante la differenza causale di fronte ad una patogenesi pressoché
identica in tutte le forme suppone che, nella sequenza di eventi patogenetici,
si possa identificare una tappa da bloccare per ottenere l’arresto della progressione
in tutti i casi; fra coloro che considerano rilevante il primum movens
etiologico, vi sono ricercatori che attribuiscono al rapporto biochimico
fra evento causale e innesco della patogenesi un valore di conoscenza chiave
per giungere a trattamenti (ed eventuali programmi di prevenzione) specifici
per le singole forme.
In ogni caso, lo studio della
genetica è importante perché, anche se le forme eredo-familiari costituiscono
una esigua minoranza, anche in quelle ad eziologia ignota si suppone un ruolo
non irrilevante del genotipo per lo sviluppo della malattia. Inoltre, la
ricerca condotta soprattutto negli ultimi decenni sulle cause genetiche delle
anomalie molecolari riscontrate, pur non essendo stata ancora decisiva per la
comprensione dell’origine della maggioranza dei casi, ha fornito dati e nozioni
di notevole interesse. Un esempio è l’identificazione da parte di St. George-Hyslop
e colleghi, in pazienti affetti da forme ereditarie della malattia, di geni
codificanti versioni alterate della APP (amyloid precursor protein) localizzati sul cromosoma 21 accanto al gene βA.
Questa scoperta ha fornito una spiegazione per le alterazioni alzheimeriane – in passato interpretate come invecchiamento
precoce – che si rilevano nel cervello di tutti gli affetti da sindrome di Down
o trisomia 21 che vivano oltre i 28 anni: avendo tre copie del cromosoma 21, producono
amiloide in eccesso.
Anche se la scoperta ha consentito
di spiegare quel dato patologico interpretato come segno di invecchiamento
precocissimo del cervello nella sindrome di Down, rende conto della probabile causa
solo di una piccolissima frazione di casi eredofamiliari
di malattia di Alzheimer che, a loro volta, costituiscono una piccola parte del
totale. In altre stirpi familiari studiate per la presenza di casi ad ogni
generazione, ereditati verosimilmente come un carattere mendeliano autosomico
dominante, sono state identificate rare mutazioni nel gene della presenilina 1 (localizzato
sul cromosoma 14) responsabili in alcuni studi fino al 50% dei casi familiari,
e della presenilina 2 (localizzato sul cromosoma 1) responsabile di una quota
degli altri casi ereditari[4].
La presenza di amiloide aberrante da
sola non è in grado nel resto della popolazione di causare la malattia
neurodegenerativa, così si sono studiati i geni associati quali fattori di rischio.
Il primo ad essere scoperto fu “Apo E”[5], un regolatore del metabolismo lipidico che ha un’affinità per la β-amiloide
delle placche neuritiche della malattia di Alzheimer e si è rivelato in grado
di modificare il rischio di acquisire la malattia di Alzheimer. In particolare,
fra le varie isoforme della lipoproteina, la presenza di E4 e del suo corrispondente
allele ε4 sul cromosoma 19 è associata ad una
probabilità tripla di sviluppare la malattia. Il possesso di due alleli ε4
sembra dare certezza della malattia a coloro che superano gli ottanta anni. L’allele
ε4 modifica anche l’età di esordio di alcune delle forme familiari della
malattia. Vari studi hanno dimostrato che, all’opposto, l’allele ε2 è poco
rappresentato nelle persone affette da malattia di Alzheimer.
Anche se
decisamente più raro delle varianti di Apo E, un polimorfismo in TREM2 conferisce
uguale probabilità di sviluppare la malattia. Nelle forme sporadiche, questo
polimorfismo è responsabile di un difetto di fagocitosi dell’amiloide che
avviene nel normale ciclo fisiologico, contribuendo all’accumulo. Altri meccanismi
ipotizzati per la partecipazione delle varianti di questo gene alla patogenesi
non hanno ancora ricevuto conferma sperimentale.
Un’altra
variazione genica, implicata sicuramente in forme familiari della malattia di
Alzheimer, è stata registrata presso il sito dell’ubiquilina
1, cioè UBQLN1 codificante una proteina che interagisce con PS1 e PS2,
oltre a partecipare alla degradazione proteasomica.
L’importanza
dello studio della genetica si può desumere dagli importanti elementi di
conoscenza che sono stati ottenuti dall’analisi di interi alberi genealogici di
pazienti affetti dalla demenza neurodegenerativa.
Nei cenni storici sulle origini di
questa patologia si cita sempre il caso di Auguste Deter,
la paziente che morì a soli 55 anni e dal cui cervello Alois Alzheimer prelevò
i campioni sui quali scoprì placche amiloidi e ammassi neurofibrillari, ma non si
riporta di un secondo caso, pubblicato dal neurologo tedesco col nome di Johann
F. e caratterizzato dall’assenza di degenerazione neurofibrillare, cioè il
primo paziente affetto dal plaque only type[6]. Nel suo cervello, oltre ai segni generici di encefalopatia atrofica, si
rilevavano solo gli accumuli macroscopici di amiloide extracellulare, denominati
da Alzheimer placche senili, secondo la terminologia anatomopatologica
dell’epoca. La ricorrenza della malattia nella famiglia di Johann aveva indotto
a supporre già a quell’epoca una causa genetica. In questo secolo, quando i
ricercatori impegnati nella ricerca del primum movens causale della
malattia si dividevano in due fazioni, la prima sostenitrice della “teoria
della β-amiloide” con capofila Dennis Selkoe e la seconda sostenitrice
della “teoria della tau”, rappresentata dalla scuola di Rudolf Tanzi, si decise
di andare alla ricerca dei discendenti Johann per verificare se fra loro vi
fossero ammalati di demenza neurodegenerativa e studiarne esaustivamente il
profilo biomolecolare.
In estrema sintesi, i sostenitori
della “teoria della β-amiloide” ritenevano che i peptidi βA amiloidogenici, ossia quelli generati dalla scissione
della γ-secretasi con una lunghezza uguale o superiore a 42 aminoacidi,
innescassero tutte le catene di eventi culminanti in degenerazione, apoptosi e
necrosi; i sostenitori della “teoria della tau” ritenevano che l’iperfosforilazione
della proteina associata ai microtubuli tau fosse responsabile della
sequenza di eventi che porta a morte i neuroni e consideravano le placche
amiloidi delle semplici “pietre tombali” formate nelle sedi di distruzione del
tessuto nervoso. Per i sostenitori di questa seconda tesi, i casi come quello
di Johann, in cui vi erano solo placche senza ammassi neurofibrillari, erano
dovuti a una causa da scoprire, ma sempre intraneuronica.
Klunemann e colleghi afferenti alla Clinica Psichiatrica dell’Università di Regensburg
(Germania) riuscirono a rintracciare i discendenti del secondo paziente di
Alzheimer, ne studiarono il profilo genetico secondo le acquisizioni più
recenti di quegli anni, ricostruirono l’albero genealogico e poi chiesero l’aiuto
di St. George-Hyslop[7]. I ricercatori fecero un lavoro straordinario: grazie a numerose tracce
documentali reperite con l’aiuto delle famiglie dei pazienti, riuscirono a risalire
lungo la linea degli antenati fino al 1670, ed elaborarono un fedele albero
delle parentele che al 2007 contava 1403 discendenti. I quattro discendenti
affetti da demenza all’epoca dello studio, la avevano ereditata come un
carattere mendeliano semplice autosomico dominante. Klunemann,
St. George-Hyslop e colleghi testarono i “geni di rischio dominanti” allora
noti, ossia APP, PS1, PS2, PRNP e BRI, senza riuscire a trovare un allele già
identificato come patologico[8]. Anche se questo studio non identificò la causa genetica dell’Alzheimer di
quella stirpe, contribuì alla demolizione della dicotomia β-amiloide/tau.
Infatti, se il primum movens sono i peptidi βA, in grado di
innescare reazioni che portano nei neuroni all’iperfosforilazione della tau con
conseguente degenerazione fibrillare seguita da distruzione degli assoni e poi
del corpo cellulare neuronico, come e perché avviene la distruzione neuronica con
gli stessi esiti clinici senza la distruzione della tau? La conclusione
ipotetica della nostra scuola neuroscientifica è che ci si trova di fronte a
patologie diverse che non differiscono solo nell’innesco eziologico ma anche,
sia pure in parte, nella patogenesi.
Per dirimere queste questioni sarà
necessario scoprire i meccanismi molecolari che mediano gli effetti dei molteplici
fattori causali e, visto che le alterazioni molecolari e i processi patologici finora
esaminati si sono rivelati quanto meno insufficienti ad orientare delle
risposte, si è proceduto attraverso analisi del trascrittoma, i cui
risultati hanno suggerito nuovi progetti di ricerca. Finora, però, non è stata
condotta nessuna analisi ai vari livelli del processo di trascrizione
per scoprire reti di co-espressione caratterizzanti la malattia di Alzheimer.
Tale studio è stato condotto da Cong Fan e colleghi,
con risultati interessanti.
(Fan C., et al. Systematic analysis to identify
transcriptome-wide dysregulation of Alzheimer’s disease in genes and isoforms.
Human Genetics - Epub ahead of
print doi: 10.1007/s00439-020-02230-7, 2020).
La provenienza
degli autori è la seguente: Department of Medical Research Center, Sun Yat-Sen Memorial Hospital, Sun Yat-Sen
University, Guangzhou (Cina); Guangdong Provincial
Key Laboratory of Malignant Tumor Epigenetics and Gene Regulation, Guangzhou (Cina); School of Data and Computer Science, Sun Yat-Sen University, Guangzhou (Cina);
School of Mathematics, Sun Yat-Sen University, Guangzhou
(Cina); Department of Anesthesiology, Sun Yat-Sen Memorial Hospital, Sun Yat-Sen
University, Guangzhou (Cina)
Cong Fan e colleghi hanno condotto
analisi al livello del gene e al livello dell’isoforma, dei dati del
sequenziamento dell’RNA dei campioni di tessuto nervoso proveniente da 544
cervelli di pazienti affetti da malattia di Alzheimer, pazienti affetti da MCI
(mild cognitive impairment) e persone
sane fungenti da gruppo di controllo. I moduli di co-espressione al
livello di geni e di isoforme sono stati costruiti dai dati del
sequenziamento dell’RNA.
Le associazioni dei moduli con la malattia di Alzheimer sono state valutate
integrando i punteggi cognitivi dei pazienti, studi di associazione estesi all’intero
genoma (GWAS), analisi di splicing alternativo e geni associati alla
demenza espressi nel tessuto cerebrale. In totale, sono stati trovati 29 moduli
di co-espressione con espressione significativamente correlata con i punteggi
cognitivi. Tra questi due moduli di isoforme presentavano anche SNP (polimorfismi
di singolo nucleotide) associati alla demenza neurodegenerativa e geni il cui splicing
dell’mRNA mostrava rilevanti alterazioni connesse anche queste con la
degenerazione alzheimeriana. In questi due moduli sono poi stati trovati anche geni
correlati alla demenza espressi nei neuroni di 4 regioni del cervello di
ben 125 pazienti del campione affetti da malattia di Alzheimer.
L’analisi dell’espressione di questi due moduli ha rivelato l’espressione
di 39 isoforme (corrispondenti a 35 geni) significativamente correlate con i
punteggi cognitivi dei pazienti affetti dalla malattia di Alzheimer, nei quali
38 isoforme erano notevolmente iper-espresse rispetto ai volontari sani
fungenti da controllo, e 33 di tali isoforme (corrispondenti a 29 geni) non
erano state in precedenza associate alla malattia di Alzheimer, costituendo una
nuova acquisizione ottenuta da questo studio.
Impiegando i moduli di co-espressione e i dati di espressione genica indotta
da farmaci della CMAP (Connectivity Map), 12
farmaci sono stati previsti come efficaci nel ricondurre l’espressione genica
dei pazienti affetti da malattia di Alzheimer a quella fisiologica delle
persone sane; fra questi 12 farmaci ben 9 sono stati in precedenza eletti fra i
composti in grado di ridurre le manifestazioni cliniche della demenza neurodegenerativa.
Nell’insieme, i dati emersi confermano l’utilità delle analisi
multi-livello dell’organizzazione trascrittomica per comprendere le reti di
co-espressione nella malattia di Alzheimer, che possono facilitare la scoperta
dei meccanismi molecolari ancora ignoti e aiutare nell’individuazione di
molecole capaci di interferire con la patogenesi del danno.
L’autore della nota ringrazia
la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE
E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).
Giovanni Rossi
BM&L-28 novembre 2020
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non-profit.
[1] La prevalenza di 10.800 su
100.000 fra gli ultra ottantenni è stima ricorrente in vari studi condotti in
tutto il mondo.
[2] In rare forme familiari sono
stati descritti casi con esordio in età giovanile. Nei criteri diagnostici si
considera un’età sempre superiore ai 40 anni.
[3] L’Adams e Victor’s,
ossia l’attuale gold standard in
neurologia clinica, ribadendo che è superata la distinzione fra demenza senile
e malattia di Alzheimer (classificata in passato come demenza presenile
perché la prima paziente di Alois Alzheimer aveva solo 51 anni all’esordio, e
perché fino a qualche decennio fa si diagnosticavano come malattia di Alzheimer
solo i casi a insorgenza precoce) propone di considerare related
but separable le varie
forme eredofamiliari finora accertate e descritte (Adams
e Victor’s Principles of Neurology by Allan H. Ropper,
Martin A. Samuels, Joshua Klein, 10th edition, p. 1063, McGraw-Hill, New York 2014). Non tutte le
volte che si rileva un marcato declino cognitivo in età avanzata, con punteggi
dei test corrispondenti alle prestazioni dei pazienti affetti dalla grave patologia
neurodegenerativa, ci troviamo di fronte alla malattia di Alzheimer: il
trattamento cognitivo con CACR (sistema computerizzato ideato dai coniugi
Gianutsos con Luciano Lugeschi al Bellevue Hospital), nuove versioni o sistemi
equivalenti, determina miglioramento e talvolta totale recupero nei casi non
dovuti a neurodegenerazione alzheimeriana; presentazioni cliniche
indistinguibili da quella della malattia di Alzheimer possono presentare la
paralisi sopranucleare progressiva, la malattia a corpi
di Lewy, la degenerazione cortico-basale, la malattia
di Pick (ossia la degenerazione lobare fronto-temporale)
e altre patologie neurodegenerative non alzheimeriane.
[4]
Bateman R. J., et al. Clinical and biomarker changes in dominantly inherited
Alzheimer disease. New England Journal of Medicine 367: 367, 2012.
[5] Il massimo studioso di questo
fattore di rischio è stato Allen Roses, ai cui studi
si rimanda per la dettagliata documentazione del percorso di ricerca che ha
condotto alle conoscenze attuali sul ruolo di Apo E ε4.
[6] Costituisce uno specifico
sottogruppo nella classificazione internazionale più spesso adottata.
[7] Note e Notizie 17-03-07 I
discendenti di Johann paziente di Alzheimer.
[8]
Cfr. Note e Notizie 17-03-07
I discendenti di Johann paziente di Alzheimer.